MONTAGNA- Crisi lavoro, le idee per lo sviluppo del Pdci
Molti aspettano con ansia l’estate, dopo questa intensa fase politica, ma per i dipendenti della De Longhi, della Seima, della Ermolli e di molte altre fabbriche, non ci saranno né ferie né tranquillità: quando in queste aziende la crisi è andata oltre la flessione congiunturale e ha portato al collasso, a fianco dei lavoratori si sono schierati i sindacati, le popolazioni locali, le istituzioni, ma questa mobilitazione rischia di avere il fiato corto. Ciò che sta avvenendo in queste situazioni, infatti, è determinato dalle tensioni dei mercati internazionali e dalla precaria competitività dimostrata anche dalle dinamiche imprese del nord est, e dunque non è verosimile immaginare trattative aziendali risolvibili localmente. Ma se – come accade sempre più spesso – i veri centri decisionali sono distanti dagli stabilimenti e pare venir meno la possibilità per le forze sociali di un determinato territorio di contrattare su scelte definite in remoti Cda, occorre interrogarsi su come contrastare con realismo un fenomeno che rischia di azzerare brutalmente alcune delle regole fondanti delle nostre società. Come comunisti non pensiamo certo di cavarcela tuonando contro il capitalismo selvaggio (che pure tale si è rivelato), e vogliamo invece cercare di capire cosa concretamente si può fare.
Partiamo allora dai limiti strutturali del nostro sistema di imprese: poche grandi aziende, una miriade di piccole realtà, esigue produzioni tecnologicamente mature, infrastrutture ridicole, e, sempre più spesso, fortissima concorrenza da parte di paesi che non rispettano le norme in materia di brevetti, certificazione di qualità, previdenza, ecc. La Lega invoca misure protezionistiche e un qualche Borghezio proporrà che le cannoniere padane bombardino Shanghai, ma è da qui, dalla nostra terra, che bisogna partire. Le aziende devono, ragionevolmente, trovare conveniente investire in una certa area: strade e ferrovie, cablaggio, formazione, energia, reti di servizi; e chi abita in montagna deve poter contare su istituzioni che sappiano spogliarsi del loro spirito impiegatizio e farsi esse stesse promotrici di sviluppo compatibile. L’impegno preso da Illy deve assolutamente fare un salto di qualità, ben oltre l’ambito della cosiddetta authority (peraltro già proposta dalla destra in alternativa alla provincia). In estrema sintesi due proposte. Si scorporino le competenze dell’Assessore Marsilio e si nomini uno specifico Assessore alla montagna (la cui sede e ossatura amministrativa dovrebbero necessariamente essere stabilite in area montana): con deleghe speciali relative alle infrastrutture e all’economia in modo da poter intervenire in modo integrato e in concertazione col territorio, a partire dalle Comunità Montane le cui funzioni vanno comunque ridisegnate.
Primo passo di questo rilancio dovrebbe essere la mappatura di tutte le potenzialità esistenti in montagna: non solo le aziende operative, ma quelle storicamente insediate, a partire dalle attività tradizionali o da quelle che trovino nella montagna alcuni dei suoi fattori (a partire da quelli, preziosissimi, che offre la risorsa primaria, l’ambiente: aria, acqua, pietra, legno, erbe e frutti della terra): zootecnia di qualità, artigianato del ferro e del legno, forestazione, piccole coltivazioni, bio-architettura, abbigliamento e articoli da montagna, stufe, caldaie policombustibili, tecnologie per l’idroelettrico, turismo ecologico; incrociando i dati di tutti gli uffici pubblici si andrebbero a configurare aree e tipologie economiche ottimali, o comunque con buoni standard di efficacia. Certo, diminuiamo pure l’IRAP, ma, soprattutto, poniamo le basi della programmazione e della creatività individuale (ad esempio apprezzando un dato positivo: in Italia l’inversione demografica è già iniziata e i residenti delle “terre alte” sono aumentati del 3% nell’ultimo anno, raggiungendo circa i 7 milioni e mezzo, cioè il 13% della popolazione): e questo si fa unicamente investendo risorse. Molte risorse. Se, infatti, il cablaggio di tutta l’area montana potrebbe essere il secondo elemento trainante, occorre uno sforzo tecnologico e finanziario robustissimo. Immaginiamo una sorta di Silicon Valley distribuita nelle nostre valli: non nel senso di specializzazione monoproduttiva, ma di un’ottima cultura informatica diffusa a partire dalle scuole (dotate ancora, cara Ministra, di poche attrezzature, tra le più scadenti in Europa) e in grado di radicarsi organicamente anche fra gli adulti (senza dimenticare gli anziani, in Scandinavia e negli USA tra i più affezionati utenti del web). Pochi milioni di contributo pubblico basterebbero per portare un computer in ogni casa (letteralmente), e se a questo si affiancassero una strategia formativa capillare e ambiziosa e l’abbattimento dei costi di connessione a Internet (in tempi brevi realizzabile anche solo con accordi fra soggetto pubblico e fornitori dei servizi informatici), si andrebbe a configurare un meccanismo virtuoso potenzialmente a livelli di eccellenza: telematica per il lavoro (in cui siamo gli ultimi in Europa) ma anche per la salute, l’assistenza, il tempo libero, l’istruzione. In prospettiva la montagna friulana potrebbe addirittura diventare un polo tecnologico d’avanguardia.
E, va sottolineato, non in alternativa alle attività già menzionate: in Irlanda, nel Galles, in Finlandia, in Estonia, si sono già attuate politiche in grado di combinare tecnologie avanzate, produzioni ad alto valore aggiunto e saperi tradizionali, e i risultati sono andati al di là delle previsioni.
Alberto Burgos,
Coordinatore PdCI Alto Friuli