Gestione del paesaggio nell’area di Rigolato, una proposta ragionata
Una proposta sulla gestione del paesaggio nell’area di Rigolato. L’ha formulata Andrea Pincin, dottore forestale, funzionario pubblico e prof. agg. nel corso di Alpicoltura – prati e pascoli presso l’Università di Udine, autore del saggio “La città rurale”, edito da Asterios Editore. Proponiamo la sua riflessione.
Passeggiando in località Riciol, in Comune di Rigolato, sulla strada comunale che sale a Piani di Vas, osservo con curiosità e meraviglia gli squarci sul paesaggio dell’alta val Degano che si intervallano camminando tra gli stavoli. Un silenzio vibrante di vita mi accompagna e, tra il profumo di legno di larice e i merli che cantano, il mio sguardo spazia sui vasti boschi che circondano la conca di Rigolato. Dal monte Crostis in giù, come in un quadro di Monet, il verde scuro degli abeti si intreccia alle chiare e leggere pennellate di larici e di faggi, che salutano la primavera con nuove foglie dal colore sgargiante e dai riflessi dorati. Un impressionismo vivente, un gioco di colori che si rincorrono, si scontrano e si riuniscono, in un incessante gioco di acquarelli della natura.
Rapito dalla contemplazione del paesaggio, un “bondì” mi riporta alla realtà. Un saluto rude, ma non inospitale. Un bondì come ci si aspetta per uno sconosciuto, il mandi è troppo confidenziale. Un signore sulla ottantina mi incrocia scendendo dalla strada. “Biel no?” Annuisco. “Ma uno volto no ero cusì”. Sorpreso e incuriosito, gli chiedo come lo spettacolo che osservo, per me immutabile e scolpito nella geografia del tempo, possa essere stato diverso. Non è facile immaginare che l’archetipo del paesaggio della Carnia, con i suoi boschi rigogliosi che si inerpicano fino alle cime, fosse differente in passato.
Lo sconosciuto si avvicina, colto forse dalla mia ingenuità, o forse solleticato nel profondo dai ricordi evocati dalla mia domanda. Difficile dirlo. Mi scruta, quasi volesse leggermi dentro, poi mi fa cenno di guardare verso monte. Un’intesa è intercorsa, forse breve, ma presente. Lo percepisco nei suoi occhi scuri e nel suo tono di voce. Mi racconta di come uno volto non vi erano alberi attorno a Rigolato, Ludaria e Riciol. Come non ve ne erano intorno a nessuna altra frazione del Comune. Prati e pascoli erano i veri dominatori del paesaggio. Servivano a nutrire il bestiame nelle stalle di inverno e sulle malghe d’estate. Quasi tutte le famiglie avevano bestiame: qualche mucca, qualche capra. Mi racconta delle fatiche e dell’operosità condivisa delle donne nel lâ a fâ fen tal cjuot, nel trasporto del fieno a valle sulla uolgio, nel lavoro in latario. Mi racconta dei molti bambini che frequentavano le scuole che quasi ogni frazione ospitava, della partecipazione comunitaria ai riti della sua amata glisjo. Da ogni ricordo trasuda nostalgia, anche se velata. Una nostalgia che sfuma nello spaesamento per una realtà e un paesaggio che non riconosce più. Parole non dette, ma che trovano la via per esprimersi e irradiare. Ancora qualche ricordo, poi lo sconosciuto saluta, questa volta con un “mandi” e si incammina verso Ludaria.
Un senso di profondo spaesamento lo ha lasciato anche a me. Provo a informarmi: nei primi anni ’50 il Comune di Rigolato aveva quasi 2100 residenti. L’ultimo dato censuario dell’ISTAT indica che nel 2022 di residenti ne sono rimasti 361: in circa 70 anni la popolazione si è ridotta di 6 volte. Per non citare il grado di invecchiamento: oggi il 78% dei residenti ha più di 40 anni e il 54% ne ha più di 60. Pochi residenti, pochissimi giovani e bambini e molti anziani. Scopro addirittura che alcune frazioni non hanno quasi più residenti. Un cambiamento demografico profondamente incisivo per una piccola comunità, uno di quelli che lascia un segno indelebile. Una domanda sorge spontanea: cosa succederà tra dieci anni?
Recupero alcune foto storiche del Comune di Rigolato: preziose testimonianze raccolte sapientemente da qualche custode della cultura del luogo. Il mio sconosciuto informatore di Riciol aveva ragione: faccio quasi fatica a riconoscere alcune vedute della valle. Il paesaggio non è più lo stesso: prati e pascoli, una volta minuziosamente curati e coltivati, ora hanno lasciato il posto a boschi che si sviluppano dal fondovalle fino quasi alle cime più alte. I centri abitati ora sembrano castellieri cinti d’assedio da un bosco che ha ripreso vigore e che ha riconquistato tutto lo spazio. Se prima aveva iniziato a scricchiolare, ora crolla l’archetipo paesaggistico della Carnia che mi ero creato e che mi era stato venduto.
Quello che oggi si tocca con mano in Carnia e quello che è presentato sui media (anche in ambito di promozione turistica) non è il frutto di una cultura di cura della montagna e dei suoi paesaggi. Non è il frutto dei valori di una comunità, ossia dei suoi coefficienti antropologici, culturali e sociali. Esso è piuttosto il segno di un abbandono, di un forte crollo demografico, di una emigrazione spinta, di un annichilimento, anche culturale, della figura del montanaro, dell’agricoltore e del pastore. Altro che montagna viva, questa è una montagna dimenticata e ormai depositata nel letto di un hospice!
Approfondisco ancora, ormai il tema “mi sta a cuore, mi interessa” come diceva Don Lorenzo Milani, che di montagna e marginalizzazione si è ampliamente occupato nella sua professione di maestro, sacerdote e guida spirituale per tanti bambini e giovani montanari. Temi cari anche a don Pierluigi Di Piazza, che ha sempre avuto a cuore il legame, anche culturale, con la sua amata Carnia. Possibile che il paesaggio, ossia il primo elemento a riportare i segni dell’abbandono, non possa tornare a giocare un ruolo chiave per la rinascita di una cultura di gestione attiva e sostenibile della montagna a favore della comunità tutta?
Scopro che nel 2000 è stata firmata in Europa la Convenzione europea per il paesaggio, la quale insegna che il paesaggio “svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all’attività economica, e che, se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro”. Una rivelazione culturale! Ma perché nessuno si è preso la briga di applicarla in Carnia? Anche il piano paesaggistico regionale, redatto in linea con le indicazioni della suddetta Convenzione e della normativa nazionale (approvato nel 2018) è uno strumento realizzato con l’obiettivo di “integrare la tutela e la valorizzazione del paesaggio nei processi di trasformazione territoriale anche nell’ottica della competitività economica regionale”. Lettera che ad oggi sembra mancare di applicazione, almeno nelle valli della Carnia.
Eppure, come ci insegna la Convenzione europea del paesaggio, rimettere al centro di un territorio il paesaggio è uno strumento politico di gestione, promozione e valorizzazione di una comunità, anche nei suoi aspetti culturali, di riconoscimento sociale ed economico. Nell’area di Rigolato, come si può rimettere al centro del dibattito e dell’agire politico il paesaggio se non recuperando il paesaggio tradizionale che il mio sconosciuto informatore mi ha introdotto e fatto conoscere e apprezzare?
Significa favorire politiche lungimiranti e attive per promuovere la valorizzazione paesaggistica verso un ripristino del paesaggio culturale tradizionale. Gli obiettivi di questi interventi sono plurimi: in primis favoriscono il riconoscimento della comunità sociale nel proprio paesaggio, combattendo attivamente lo spaesamento antropologico. Il rapporto tra comunità e luoghi è un tassello importante verso la vivibilità. In secondo luogo, il recupero dei prati e dei pascoli può favorire l’inserimento di attività agricole e agrituristiche, creando cioè nuove opportunità occupazionali. Questo consente il monitoraggio capillare del territorio, anche a protezione dei centri abitati, i quali ad esempio, protetti da una cintura prativa che separa il bosco dalle case, sono meno esposti a eventuali incendi forestali, soprattutto ora che dilaga il bostrico.
In una delle aree della Carnia che più di tutte porta i segni dell’abbandono, il recupero del paesaggio tradizionale può essere un volano di traino culturale, economico e di promozione turistica. Non dimentichiamo che molte realtà alpine investono ingenti risorse per la gestione dei paesaggi agricoli tradizionali, in particolare per la conservazione dei prati e dei pascoli di fondovalle, di versante e dei comprensori malghivi. Sono proprio le mete alpine che curano diligentemente il paesaggio quelle più ricercate dai turisti e che meglio esprimono le condizioni per favorire la residenzialità permanente in territorio montano.
Scopro inoltre che per operare questi interventi di recupero paesaggistico esistono specifiche disposizioni pianificatorie e legislative, quali ad esempio la legge regionale 16 giugno 2010, n. 10 (interventi di promozione per la cura e conservazione finalizzata al risanamento e al recupero dei terreni incolti e/o abbandonati nei territori montani).
La montagna ha bisogno di scelte politiche strategiche, lungimiranti e coraggiose, non di cure palliative. Saremo in grado di garantire queste scelte così fondamentali per la montagna o dovremo ripercorrere i versi del poeta di Comeglians Leonardo Zanier (“ma pòde èssi bielezza/[…]/chei paîs cence oms/chel lavôr cence cjanz/[…]/ nostalgigi e malinconici chê gioventût ch’a si ‘n’ va/pòde èssi bielezza chesta?” – Leonardo Zanier, 1972, Libers… di scugnî lâ) fino all’abbandono della montagna più completo, come già è avvenuto per altri borghi storici della montagna friulana?
ANDREA PINCIN