Quattro nuovi Presìdi Slow Food in Alto Friuli
Le zone alpine custodiscono prodotti e tradizioni alimentari preziosi per la biodiversità del nostro pianeta e, nei secoli, hanno garantito la sopravvivenza delle popolazioni locali nonostante condizioni climatiche e ambientali avverse. I quattro nuovi Presìdi Slow Food arrivano proprio dalle zone montuose del Friuli-Venezia Giulia e raccontano storie diverse fra loro, accomunate dall’urgenza di tutelare e dare nuova linfa a tutti quei territori e quelle comunità rurali che, negli anni, hanno rischiato di scomparire a causa del dissesto idrogeologico e del depauperamento delle terre alte.
Il brovadâr (nella foto di copertina), conosciuto anche come brovedâr, è un fermentato di rape, tradizionalmente preparato nell’area montana della Val d’Aupa, nella zona settentrionale del Friuli-Venezia Giulia. Per la sua preparazione si usano particolari rape dal colletto viola, di forma tondeggiante e di piccolo taglio, le cui sementi vengono conservate e riprodotte da anni dalle famiglie di Moggio Udinese, un paese circondato dalle Alpi Giulie e Carniche, legato da secoli a questo tipo di produzione.
I semi che vengono tramandati di padre in figlio da generazioni e la tecnica di fermentazione sono gli elementi che rendono questo prodotto unico nel suo genere: infatti, per ottenere il brovadâr si utilizzano sia le radici sia le foglie della rapa, che vengono lavate in acqua fredda e poi leggermente sbollentate, lasciate raffreddare e adagiate a strati in tini di legno, prima di essere pressate a mano. Nel recipiente che le contiene si versa acqua fredda salata fino a coprire tutto il prodotto e vi si sovrappone un peso, per far sì che le rape rimangano coperte dal liquido durante tutto il periodo di fermentazione che dura all’incirca due mesi.
«Tradizionalmente le rape vengono raccolte a novembre, dopo la prima gelata della stagione, affinchè il brovadâr possa essere consumato tra Capodanno e l’Epifania» spiega Rita Moretti, referente Slow Food del Presidio. «Storicamente la rapa ha avuto un ruolo cruciale nella storia culinaria della regione: veniva consumata regolarmente prima che la patata venisse scoperta e importata dalle Americhe e ha garantito in questo modo la sopravvivenza a molte famiglie della valle».
Dopo un lungo percorso di sensibilizzazione della comunità locale, durato quasi dieci anni, è proprio dalle famiglie di Moggio Udinese che sono partite le iniziative per la valorizzazione di questa usanza locale.
In passato, proprio a causa della rigidità del clima, il cavolo cappuccio di Collina era, insieme a orzo e segale, una delle poche specie coltivabili nell’area, ma col tempo e con il progressivo spopolamento delle aree montane è quasi scomparso dalla produzione locale.
«A differenza delle altre tipologie di cavolo cappuccio – sottolinea Andrea Collucci, referente dei produttori del cavolo cappuccio di Collina – questo presenta, innanzitutto, una forma molto diversa: è bislungo e ha i vertici schiacciati. Ha poi molte più foglie, che sono anche più sottili e più compatte. E il sapore, al palato, risulta più piccante».
Se oggi possiamo annoverarlo fra i Presìdi Slow Food lo dobbiamo al lavoro di salvaguardia portato avanti dalla famiglia Toch che, inizialmente nella persona di Ciro e ora grazie a suo figlio Michele, non ha mai smesso di rinnovare la semente. Uno sforzo fortunatamente non vano: nel 2018, infatti, un gruppo di giovani agricoltori ha fatto ritorno nel territorio di Collina e, costituendo la cooperativa CoopMont, ha dato un seguito alla sua opera di conservazione e promozione di questa tipologia di cavolo cappuccio.
Il comune di Sauris si trova all’estremo nord del Friuli-Venezia Giulia, vicino al confine austriaco. Qui, a 1200 metri di altitudine, una particolare tipologia di fava, di cui si ha notizia già nel 1683, ha trovato le condizioni ideali per la sua crescita.
La fava di Sauris è una pianta annuale, la cui semina avviene a maggio e la raccolta intorno a fine agosto. Un tempo, tostata e macinata, era considerata un’ottima farina per fare il pane o un’alternativa al caffè.
«Attraverso alcuni studi – racconta Filippo Bier, referente regionale dei Presìdi Slow Food – gli agronomi dell’Ersa, l’agenzia per lo sviluppo rurale del Friuli-Venezia Giulia, sono riusciti a scoprire che questa specifica tipologia di fava era radicata nel territorio ben prima dell’arrivo sul mercato locale del fagiolo che, con l’avvio del processo di industrializzazione del mondo agricolo avvenuto nel secondo dopoguerra, ha avuto la meglio, soppiantandola in via pressoché definitiva».
Tuttavia, negli ultimi anni, gli abitanti della zona hanno riscoperto questa varietà di legume e ne hanno ripreso la coltivazione, promuovendola anche come elemento chiave nella dieta dei loro paesi montani.
Le pere Klotzen dell’Alpe Adria
Nell’area di confine tra Friuli, Carinzia e Slovenia sopravvivono pochi esemplari di pero. Tra questi c’è il pyrus nivalis, il cosiddetto “pero delle nevi”, caratterizzato da fiori e frutti molto piccoli, nonostante l’imponenza degli alberi. Questa pera, a causa della polpa particolarmente legnosa, può essere mangiata solo dopo essere stata fatta ammezzire, ovvero sottoposta a quel processo di maturazione successivo alla raccolta che ne determina un cambiamento di consistenza, colore e sapore.
Al termine dell’ammezzimento, le pere vengono essiccate e sono pronte a essere utilizzate: talvolta trasformate in farina per la preparazione di dolci tipici e pane, in altri casi fatte rinvenire per cucinare i klotzennudeln o cjarsons, ravioli ripieni di pera e ricotta. Nelle valli, poi, è ancora viva la produzione di succo, sidro, distillato e liquori a base di pere klozen, mentre in Austria, soprattutto in passato, veniva utilizzata come tisana sostitutiva del caffè al termine dei pasti.
«La pera klozen – spiega Alfredo Domenig, produttore del Presidio – ha rappresentato per decenni una delle poche fonti di sostentamento per le popolazioni che abitavano le nostre montagne che, durante tutto il periodo invernale, restavano isolate avendo a disposizione solo patate, crauti, carne di maiale e, appunto, pere secche. Queste ultime erano, sostanzialmente, l’unico mezzo attraverso cui la popolazione locale poteva acquisire vitamine e zuccheri. Per questo, ben oltre le loro caratteristiche organolettiche, sono un alimento dal valore storico inestimabile»